Nepal offline: il blocco dei social accende la rivolta della Gen Z
Spegnere la rete per spegnere una protesta: scelta vecchia, risultato prevedibile. In Nepal il governo ha provato a chiudere 26 piattaforme social – dai colossi occidentali a YouTube – per fermare un’ondata di contestazioni che partiva online e finiva in piazza. Il piano si è rivelato benzina sul fuoco: la Generazione Z ha reagito, si è organizzata e ha trasformato il blackout digitale in una mobilitazione reale senza precedenti a Kathmandu e oltre. Mentre il numero dei morti e la tensione crescono, il potere vacilla. E una domanda pesa su tutte: nel 2025 si può ancora governare con l’interruttore dei social?
Cosa è successo: dal blocco dei social alle piazze piene
Nei giorni scorsi il governo nepalese ha reso irraggiungibili 26 piattaforme social, compresi Facebook, Instagram e YouTube. Motivazione ufficiale: “limitare la diffusione di fake news e hate speech”. Nel frattempo, la temperatura sociale era già altissima. Online circolavano campagne che mettevano a confronto la vita di sfarzo attribuita ai figli dell’élite politica con le difficoltà quotidiane di molti giovani nepalesi. Un corto circuito perfetto: indignazione digitale che diventa rabbia fisica.
Mentre i blocchi entravano in vigore, le strade di Kathmandu si riempivano. Secondo le cronache internazionali e i report dal territorio, le proteste hanno provocato numerosi scontri, diversi morti e un’escalation di violenza che ha travolto la capitale e altre città. Il racconto di contesto è stato documentato anche dal New York Times, che descrive la pressione crescente sulle istituzioni e il ruolo dell’esercito nel contenimento.
Perché il blocco dei social ha fatto esplodere la situazione
Chiudere i canali digitali nel 2025 equivale a togliere la corrente. Non è un gesto tecnico: è un atto politico, simbolico ed economico. E produce tre effetti immediati:
- Amplifica la sfiducia: la censura rafforza l’idea che chi governa abbia qualcosa da nascondere.
- Radicalizza: se non posso parlare online, scendo in strada. La conversazione si sposta dal digitale al fisico con meno filtri.
- Colpisce la quotidianità: i social non sono solo intrattenimento; sono informazione, lavoro, relazioni. Togliere l’accesso significa tagliare servizi essenziali per una fetta enorme di popolazione, soprattutto under 30.
Il cortocircuito è stato reso ancora più evidente da una scelta che ha fatto discutere: TikTok è rimasto accessibile. Una finestra aperta nel blackout. Risultato? La piattaforma di ByteDance è diventata il centrale operativo della protesta: coordinamento, aggiornamenti in tempo reale, logistica di piazza. Paradosso dei tempi: tenti di spegnere il “rumore” e regali più potere al social con l’algoritmo più virale di tutti.
La Gen Z al centro: perché i giovani guidano la protesta
I protagonisti sono i più giovani. Non è solo una questione anagrafica: è una questione di linguaggio e di strumenti. La Gen Z vive la politica come un flusso continuo tra feed e marciapiede. Si informa, si organizza, documenta. E quando sente che l’accesso alla rete è in pericolo, percepisce l’attacco alla libertà digitale come un attacco personale.
Tre fattori che hanno spinto i giovani in strada
- Ipocrisia percepita: la narrazione del privilegio – case, auto, feste – attribuita all’élite a fronte di salari bassi e poche opportunità è esplosiva.
- Competenza digitale: sanno aggirare blocchi, usare VPN, cambiare piattaforma in un click. Disattivare un’app non disattiva una generazione.
- Fame di rappresentanza: quando i canali istituzionali non ascoltano, i social diventano il parlamento parallelo. Se lo chiudi, il parlamento scende in strada.
Che ruolo ha avuto TikTok nella mobilitazione
Lasciato online “per opportunità geopolitiche” – evitare frizioni con il vicino cinese – TikTok si è trasformato nel megafono e nel back office del movimento. Format brevi, hashtag coordinati, live dai sit-in. È la dimostrazione pratica che la piattaforma detta l’azione:
- Velocità: le call to action si diffondono in minuti, non in ore.
- Emulazione: i trend aiutano a standardizzare gesti, cori, cartelli. La protesta diventa replicabile.
- Documentazione: video e live creano una memoria collettiva immediata, difficile da smentire.
Per i decisori pubblici è una lezione dura: bloccare “i social” non è una strategia. È un pattern di errore. Lo dimostra anche la cronaca internazionale riportata dal New York Times: quando limiti un canale, l’ecosistema si riorganizza in modo ancora più efficiente e imprevedibile.
Dal digitale al reale: cosa è successo nelle strade
Le giornate successive al blocco hanno visto un crescendo di manifestazioni, cariche, barricate. Diversi palazzi istituzionali e sedi politiche sono stati presi di mira, con incendi e assalti. Le notizie di morti durante la repressione hanno ulteriormente alimentato la tensione. Nel vortice, si sono rincorse voci di dimissioni e rimpasti, con il governo messo all’angolo dalla pressione popolare e dallo stallo di gestione dell’ordine pubblico.
A prescindere dai dettagli ancora in evoluzione, il dato resta: il tentativo di spegnere la conversazione ha moltiplicato il conflitto. La fiducia, una volta rotta, è difficile da ricostruire con decreti e blocchi tecnici.
Perché questo caso riguarda anche noi
“È il Nepal, è lontano” è l’alibi che ci culla. Ma le dinamiche sono le stesse ovunque: piattaforme centrali nella vita delle persone, disallineamento tra potere e aspettative, società che si informa e si organizza in real time. Con alcune lezioni utili per chi governa, per i media e per chi lavora nell’economia digitale.
Lezioni per policy maker e istituzioni
- La trasparenza vince sulla censura: comunicare, spiegare, creare canali ufficiali di fact-checking è più efficace del “bottone rosso”.
- La moderazione è una responsabilità condivisa: governo e piattaforme possono lavorare su protocolli di emergenza senza minare l’accesso.
- La libertà digitale è percepita come diritto: limitare l’accesso colpisce diritti civili, lavoro e studio. È un costo politico enorme.
Indicazioni per brand, creator e media
- Resilienza cross-platform: mai dipendere da un solo canale. Newsletter, RSS, community proprietarie sono l’assicurazione “anti-blackout”.
- Contenuti documentali: nei momenti di crisi, vince chi produce informazioni verificabili e utili, non chi insegue l’algoritmo.
- Ascolto attivo: capire cosa muove le community giovani oggi è l’unico modo per non essere tagliati fuori domani.
Il fattore geopolitico: tra Big Tech e vicinato ingombrante
Il dettaglio più interessante, e forse più controverso, è proprio la scelta di lasciare TikTok online mentre si silenziavano le piattaforme occidentali. Un segnale chiaro: quando la politica entra nei social, i social entrano nella geopolitica. Per un Paese incastrato tra giganti regionali, ogni decisione sulle piattaforme ha ricadute diplomatiche. Il risultato, però, resta lo stesso: il pubblico non perdona incoerenza. Se blocchi in nome della sicurezza informativa, perché tieni aperto l’ecosistema più virale e meno controllabile del momento?
Fake news e hate speech: il problema reale, la soluzione sbagliata
Nessuno nega che disinformazione e odio online siano problemi seri. Ma il caso Nepal dimostra che il rimedio indiscriminato fa più danni della malattia. Ecco alternative pratiche che molti Paesi stanno testando senza tagliare i cavi:
- Accordi operativi con le piattaforme per rimozioni rapide su contenuti violenti o palesemente falsi, con report pubblici sulla trasparenza.
- Unità di crisi digitali per smentire in tempo reale e orientare il pubblico verso fonti verificate.
- Educazione ai media continua, soprattutto tra i più giovani, per decodificare contenuti manipolativi.
Non sono soluzioni perfette, ma funzionano meglio di un blackout che punisce tutti e premia solo chi è più bravo ad aggirarlo.
Un precedente che peserà sulle prossime crisi
L’immagine che resta è quella di una generazione che, davanti all’interruttore abbassato, ha alzato il volume. Il Nepal diventa così un test globale: quanto sono centrali i social nella tenuta democratica di un Paese? E quanto sono fragili i governi che pensano di poter gestire il dissenso con i filtri di rete?
Per chi guarda da fuori, la conclusione è semplice: le piattaforme sono infrastrutture sociali. Non sono l’unica causa delle proteste, ma sono il luogo dove le proteste si organizzano, si legittimano e si raccontano. E non c’è firewall che tenga quando la società ha deciso di parlare.
Fonti e approfondimenti
Conclusione
Il caso Nepal è un promemoria per tutti: chiudere i social non spegne il malessere, lo concentra. E oggi la Generazione Z ha gli strumenti per trasformare un blocco digitale in una mobilitazione reale. La domanda non è se la rete va regolata, ma come farlo senza azzerare diritti e fiducia.
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