Grok di X nel mirino: disinformazione sulla sparatoria di Bondi Beach e come difendersi
Quando l’intelligenza artificiale sbaglia, lo fa a velocità di virale. Il caso Grok – il chatbot di X (ex Twitter) – che avrebbe diffuso informazioni errate sulla sparatoria di Bondi Beach in Australia, apre una questione seria: possiamo fidarci di un’AI nei momenti di cronaca? Qui ricostruiamo cosa è successo, perché i modelli si inceppano proprio durante i breaking news e quali contromosse usare per non cadere nelle fake news.
Cos’è accaduto: Grok e la sparatoria a Bondi Beach
Nel giorno dell’attacco a Bondi Beach, diversi utenti hanno segnalato risposte fuorvianti e platealmente sbagliate da parte di Grok. Secondo una ricostruzione di Gizmodo, il chatbot avrebbe descritto video e foto legati alla sparatoria in modo impreciso o completamente scollegato dal contesto reale, generando confusione in una fase in cui le informazioni attendibili erano cruciali.
Questo non è un incidente isolato: i chatbot generativi, se spinti a rispondere “in tempo reale” su eventi in corso, tendono a colmare i vuoti con supposizioni. Il risultato? Una miscela di verità, rumor e invenzione che si propaga in pochi minuti. E su una piattaforma come X, dove il ciclo dell’attenzione è rapidissimo, il danno reputazionale e informativo si amplifica.
Gli esempi che hanno fatto discutere
- Confusione video: a un utente che chiedeva di verificare un filmato dell’assalitore, Grok avrebbe risposto collegandolo a un vecchio video virale non correlato (un uomo su una palma e un’auto danneggiata).
- Foto mal interpretata: un’immagine di un soccorritore ferito sarebbe stata scambiata con la foto di un ostaggio israeliano del 7 ottobre.
- Evento meteo inesistente: un video della sparatoria con polizia e aggressore sarebbe stato “spiegato” come gli effetti di un ciclone in Australia, fuori contesto.
Tutti esempi riportati da Gizmodo che evidenziano un pattern: quando le immagini e i video sono al centro, la probabilità di errore aumenta perché il modello “indovina” più che verificare.
Perché i chatbot creano disinformazione in tempo reale
Un modello linguistico non “sa” come un giornalista, predice. Nelle breaking news la pressione a rispondere subito incontra la scarsità di fonti verificate. Se il sistema attinge a flussi social non moderati, tende ad assorbire rumor, interpretazioni e contenuti virali spacciandoli per plausibili.
A questo si aggiunge un problema strutturale: gli LLM non hanno una nozione innata di verità, ma di probabilità linguistica. E quando arrivano input ambigui (immagini senza metadati, video decontestualizzati, post di utenti sconosciuti), la macchina produce il testo “più probabile”, non necessariamente il più accurato.
I tre fattori tecnici che alimentano l’errore
- Pressione dell’immediatezza: la domanda “cos’è successo adesso?” costringe il modello a riempire i buchi informativi prima che esistano conferme ufficiali.
- Ambiguità multimodale: immagini e clip brevi senza contesto spingono l’AI a riciclare narrazioni preesistenti (somiglianze, vecchi virali, eventi passati).
- Amplificazione sociale: se il retrieval pesca da post non verificati, l’algoritmo trasforma rumor in “risposte” e rafforza l’eco della disinformazione.
Perché è un problema per tutti (non solo per X)
Quando un chatbot sbaglia durante una crisi, non è una gaffe: è un moltiplicatore di incertezza. Gli utenti cercano conferme, i media navigano tra flussi contraddittori, i brand rischiano di associare la propria comunicazione a fonti screditate.
- Per gli utenti: più rumor significano scelte peggiori (condivisioni impulsive, panico, sfiducia generalizzata).
- Per i media: verificare diventa più costoso e lento, mentre la pressione del “pubblica ora” aumenta.
- Per le piattaforme: la credibilità crolla se l’AI appare incontrollata proprio quando serve responsabilità.
- Per la sfera pubblica: la post-verità si consolida: tutto sembra opinione, anche i fatti.
Come difendersi: checklist pratica anti-fake news
Non basta “stare attenti”: servono abitudini. Ecco una lista essenziale per utenti, professionisti e creator.
- Confronta almeno tre fonti autorevoli (agenzie, media nazionali/internazionali, autorità locali).
- Controlla il timestamp: il contenuto è attuale o è riciclato? Occhio a date e orari nei post.
- Verifica la provenienza: chi ha pubblicato? Ha storico, competenza, trasparenza sull’origine del materiale?
- Ricerca inversa immagini: usa strumenti per capire se foto/clip sono vecchi virali spacciati per nuovi.
- Diffida delle certezze lampo: nelle prime ore le informazioni sono parziali; cercare “assoluti” è una trappola.
- Leggi oltre il titolo: il copy emotivo crea click, non accuratezza. Vai al contenuto, cerca i dati.
- Aspetta conferme ufficiali: polizia, protezione civile, ospedali, istituzioni: priorità a fonti primarie.
- Non condividere nel dubbio: la prudenza è il miglior antidoto all’algoritmo della viralità.
Cosa dovrebbero fare le piattaforme (X e non solo)
Se i chatbot sono parte dell’esperienza informativa, devono rispettare standard minimi di responsabilità, soprattutto durante gli eventi critici.
- Modalità “breaking” con freno: rallentare le risposte o includere avvisi chiari quando i fatti sono in evoluzione.
- Citazioni di fonte obbligatorie: ogni risposta su cronaca deve linkare le fonti utilizzate o dichiarare l’assenza di fonti verificate.
- Blacklist per rumor: escludere dai sistemi di retrieval post non verificati, account anonimi o notoriamente inaffidabili.
- Tracciabilità: log pubblici (audit) sul perché una risposta è stata generata in un certo modo.
- Kill switch: nei momenti di crisi, meglio sospendere le funzioni “interpretative” che rischiare l’errore sistemico.
Il ruolo dei media e dei creator
Paradossalmente, questo è il momento in cui la lentezza strategica ripaga. Prendersi minuti (o ore) per verificare significa restituire valore all’audience. E chi fa informazione o approfondimento ha un vantaggio competitivo: può spiegare, contestualizzare, smontare le bufale senza inseguire l’immediatezza a tutti i costi.
Un’occasione per fare meglio
La lezione di Bondi Beach è chiara: delegare la verità a un chatbot non è una scorciatoia, è un rischio. Servono competenze umane, metodi di verifica e piattaforme che privilegino l’accuratezza alla velocità quando conta davvero. La tecnologia può aiutare, ma solo dentro regole chiare e responsabilità condivise.
Conclusione
La disinformazione non è un bug passeggero: è il prezzo da pagare se confondiamo probabilità con verità. Sta a noi – utenti, piattaforme, media – ridurre l’attrito tra velocità e accuratezza. E scegliere consapevolmente come informarci quando succede qualcosa di grande.
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