Adolescenti e AI: perché 1 su 5 sceglie un chatbot invece di parlarne con qualcuno

Un dato che spacca la discussione: sempre più ragazzi si confidano con l’intelligenza artificiale. Non è una moda passeggera, è un cambio di abitudini. L’AI è disponibile, non giudica e risponde subito. Ma se un adolescente su cinque preferisce un chatbot a una persona, la domanda non è “cosa c’è che non va nei ragazzi?”, bensì: “che cosa non stiamo offrendo noi adulti?”. Qui trovi numeri, rischi e opportunità, con spunti concreti per famiglie, scuole e aziende.

Il dato che cambia la conversazione

Secondo l’ultimo Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children, 1 adolescente su 5 preferisce parlare con un chatbot invece che con una persona. Il rapporto (“Senza filtri – Voci di adolescenze”) fotografa una generazione cresciuta tra schermi, piattaforme e risposte immediate.

Alcuni numeri chiave:

  • 92% dei ragazzi 15–19 anni usa l’AI, contro il 46% degli adulti.
  • 1 su 3 consulta l’AI quasi ogni giorno, soprattutto tramite i chatbot più diffusi.
  • 41,8% si è rivolto a chatbot quando si sentiva triste o ansioso.
  • 42% ha chiesto consigli su scelte importanti: relazioni, scuola, lavoro, decisioni di vita.

In altre parole: l’AI è già un interlocutore. Non è “il futuro”, è il presente dei nostri figli.

Perché i chatbot piacciono così tanto

Le ragioni dichiarate

  • Sempre disponibili: nessun orario, nessuna attesa.
  • Non giudicano: l’AI “capisce” tra virgolette, ma soprattutto non ti fa sentire in colpa.
  • Risposta immediata: quando l’emozione è forte, il tempo conta.
  • Spazio protetto (percepito): si può “provare” pensieri senza paura di ripercussioni sociali.

Questo mix è irresistibile per chi vive un periodo già complesso come l’adolescenza. Ma attenzione: la disponibilità non è qualità, e l’empatia simulata non sostituisce l’ascolto umano.

Il paradosso dell’ascolto

L’AI non prova emozioni, restituisce pattern. Può rispondere in modo coerente, anche “confortante”, ma non sa prendersi cura. Il rischio è confondere la facilità di accesso con la profondità della relazione. Se il chatbot diventa il primo interlocutore, dove alleniamo le competenze emotive? E che cosa succede quando il modello sbaglia, banalizza o fornisce indicazioni inappropriate?

Benessere psicologico e divario di genere

Il dato più pesante arriva dal benessere percepito: solo il 49,6% degli adolescenti dichiara di essere stato bene psicologicamente nelle ultime due settimane. Il divario di genere è enorme: 66% dei ragazzi dice di stare bene, contro un 34% delle ragazze. La differenza parla da sola e interroga famiglie, scuola, community online, piattaforme.

C’è però una nota positiva: la maggior parte afferma di avere buone relazioni con amici e genitori. Bene. Ma quelle relazioni passano sempre più spesso da schermi, chat e piattaforme. E quando l’incontro fisico diminuisce, anche il supporto “vero” può indebolirsi. Servono luoghi e rituali nuovi, non solo chat.

I rischi della iperconnessione (e come riconoscerli)

Segnali da non sottovalutare

  • Uso problematico di Internet: riguarda il 13% degli adolescenti.
  • Phubbing (guardare il telefono mentre si è con altri): 38%. E non riguarda solo i ragazzi: tanti adulti fanno lo stesso.
  • Ansia da distanza: il 27% si sente nervoso senza smartphone a portata di mano.
  • Cyberbullismo: il 47,1% ha subito episodi, in forte aumento rispetto al 2018.

Questi numeri raccontano l’altro lato della medaglia: connessioni infinite, ma meno sguardi. Più conversazioni, ma meno profondità. Se il telefono è il centro, la relazione reale diventa periferica.

Effetto bolla e solitudine

L’algoritmo premia ciò che conferma ciò che già pensiamo. È comodo, ma rischioso: l’effetto bolla riduce l’esposizione a idee diverse e isola. Sommalo alla paura di sbagliare in pubblico, ed ecco perché il chatbot sembra “più sicuro” di un confronto umano. Ma crescere richiede disaccordo, fatica, ascolto reciproco. Serve rimettere al centro contesti dove si possa sbagliare senza essere “cancellati”.

Che cosa possono fare adulti, scuole, aziende

Ricostruire i luoghi

Non bastano regole e filtri. Servono luoghi dove accadono gesti, parole, contatti veri: spazi di ascolto a scuola, biblioteche vive, sport di quartiere, community locali, laboratori tech guidati. Se i luoghi offline non esistono, le piattaforme saranno l’unica alternativa. E i chatbot diventeranno l’unico “orecchio”.

Educazione digitale concreta

  • Patti digitali co-progettati con i ragazzi: orari, spazi no-phone, tempi di disconnessione.
  • Fact-checking e prompt literacy: insegnare a fare domande migliori e a verificare le risposte dell’AI.
  • Privacy e limiti dell’AI: cosa condividere e cosa no, come funziona la raccolta dati, come riconoscere le allucinazioni.
  • Protocolli anti-cyberbullismo semplici, pubblici e applicati (non solo sulla carta).

Usare l’AI in modo sano

  • Chatbot come spazio di riflessione (tipo diario guidato), non come diagnosi o terapia.
  • Cross-check con un adulto su scelte importanti: l’AI può proporre opzioni, la decisione resta umana.
  • Richiedere fonti e chiedere all’AI di mostrare i limiti della sua risposta.
  • Timer e pause: chiudere la chat quando l’emozione sale, spostare la conversazione su una chiamata o un incontro.

Il ruolo delle piattaforme

Le aziende tech devono fare la loro parte: trasparenza sugli algoritmi, guardrail chiari per i minori, design che non incentivi dipendenza e polarizzazione. Gli utenti (noi) possono premiare i servizi che rispettano queste regole e chiedere più responsabilità a chi non lo fa.

Dati in prospettiva: non è una guerra generazionale

Confrontare i numeri aiuta: se il 46% degli adulti usa l’AI, non possiamo fingerci estranei. Anche gli adulti fanno phubbing, anche gli adulti cercano scorciatoie digitali. La differenza è che i ragazzi stanno imparando ad essere persone mentre noi stiamo ancora imparando ad essere adulti online. Non servono crociate anti-tech: serve esempio, metodo, presenza. L’AI può diventare un alleato se la relazione umana torna a essere il riferimento.

Conclusione

Se 1 su 5 preferisce un chatbot, la domanda è: quali conversazioni, quali luoghi, quali tempi stiamo davvero offrendo? La tecnologia corre. La responsabilità è nostra: rimettere al centro l’ascolto, creare spazi dove i ragazzi possano parlarsi e parlarsi davvero.

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