Vibe coding: la parola dell’anno di Collins che cambia il modo di creare software
“Vibe coding” è sulla bocca di tutti. Non è solo l’etichetta tech del momento: è il segnale che stiamo entrando in una fase in cui costruire prodotti digitali a partire da una conversazione con l’AI diventa normale. Collins l’ha scelta come parola dell’anno 2025 e, al di là della moda, ci dice molto su dove andrà l’innovazione. Qui trovi significato, contesto, opportunità e limiti reali del fenomeno — senza fuffa.
Che cos’è il vibe coding (e perché Collins l’ha messa in cima)
“Vibe coding” indica la creazione di software, siti e applicazioni partendo da istruzioni in linguaggio naturale — un brief conversazionale, non un documento tecnico — che l’intelligenza artificiale traduce in codice, interfacce e flussi. Il “vibe” è l’intento: ciò che vuoi ottenere, più che come implementarlo.
Il Collins Dictionary l’ha premiata come parola dell’anno 2025 dopo aver scandagliato il Collins Corpus, un archivio di oltre 24 miliardi di parole raccolte da media, pubblicazioni e social: un segnale statistico chiaro, non un’intuizione isolata. Fonte: The Guardian.
Perché questa scelta conta? Perché fotografa un punto d’incontro tra autenticità umana (la tua idea, il tuo tono, il tuo obiettivo) e automazione intelligente (modelli che generano codice e asset). È una parola-ponte che rende socialmente “accettabile” parlare di sviluppo software senza essere sviluppatori.
Non è solo no-code: è conversazione + agenti
Il vibe coding non rimpiazza il no-code, lo supera. Il paradigma non è “trascina e rilascia”, ma “spiega cosa vuoi e lascia che l’AI esplori la soluzione”. Gli agenti AI entrano in gioco: leggono istruzioni, generano componenti, testano, correggono, iterano. L’umano resta al volante; l’AI fa da co-pilota. Quando? Sempre per prototipi, test e concept. Mai per sistemi mission-critical senza revisione umana seria. Tradotto: non fateci il sito della banca.
Dal prompt al prototipo: come funziona in pratica
Un flusso tipico di vibe coding assomiglia a questo:
- Brief conversazionale: descrivi obiettivi, utenti, funzioni e vincoli in linguaggio naturale.
- Generazione: l’AI produce scaffolding, API calls, layout, seed data.
- Iterazione: rispondi, affini, aggiungi casi d’uso; l’agente aggiorna codice e interfacce.
- Validazione: test automatici e manuali, controlli su performance e sicurezza.
- Handoff: uno sviluppatore verifica, ripulisce, integra e versiona.
Il valore non sta nella magia del “faccio tutto con un prompt”, ma nella velocità di apprendimento: passi dall’idea a qualcosa di cliccabile in ore, non in settimane.
Perché se ne parla: i segnali del 2025 e cosa aspettarsi nel 2026
Nel 2025 l’AI è uscita dalla bolla: campagne pubblicitarie mainstream, tool integrati nel quotidiano, funzioni AI spuntate ovunque. Il vibe coding è l’etichetta che unisce tutto questo al mondo del software. Il passaggio chiave è l’evoluzione da “chat con un modello” a agenti che pianificano, agiscono e verificano. È qui che, nel 2026, vedremo il salto di qualità: meno demo, più workflow reali che misurano impatto, costi e rischi in produzione.
Cosa cambia per aziende e professionisti
- PM e marketer: prototipi in giorni, test con utenti reali, insight rapidi prima di investire budget.
- Team di prodotto: backlog che si accorcia, ma cresce il lavoro su qualità, integrazioni e sicurezza.
- Developer: meno boilerplate, più architettura, revisione, osservabilità e governance del codice generato.
- PMI e creator: accesso a MVP e landing misurabili senza barriere d’ingresso insormontabili.
Opportunità e limiti: cosa c’è di vero oltre la buzzword
Parliamoci chiaro: “vibe coding” suona bene, ma la sostanza va misurata.
Le opportunità
- Prototipazione veloce: validi ipotesi con costi minimi e pivot più rapidi.
- Accessibilità: più persone possono partecipare alla progettazione, non solo i tecnici.
- Creatività aumentata: l’AI suggerisce alternative che non avevi considerato.
- Riduzione del time-to-market: versioni alpha/beta in tempi record per early feedback.
I limiti (da non ignorare)
- Qualità del codice: duplicazioni, dipendenze sbagliate, test deboli. Serve revisione ingegneristica.
- Sicurezza e compliance: injection, permessi, dati sensibili. Vanno progettati e testati “by design”.
- Mantenibilità: chi aggiorna tra sei mesi un progetto nato da prompt? Documentazione e standard sono obbligatori.
- Allucinazioni e bug silenziosi: l’AI può “inventare” pattern o API. Osservabilità e QA non sono opzionali.
- Lock-in: dipendere da un vendor o modello può costare caro. Valuta portabilità e alternative.
Le parole contano: come il linguaggio cambia con l’AI
Quando una parola entra nel mainstream, cambia la conversazione. “Vibe coding” rende socialmente legittimo parlare di software senza codice: abbassa l’ansia da complessità e alza le aspettative. Intanto il nostro italiano si è già spostato: termini e toni “allenati” dai modelli (più formali, più accomodanti) entrano nel quotidiano. Bene? Male? Dipende da come li usiamo. Ma è un dato: il linguaggio anticipa i comportamenti. Se la parola prende piede, i processi seguiranno.
Parlare di vibe coding senza vendere fumo
- Definisci il perimetro: prototipi e test sì; produzione senza controlli, no.
- Misura: tempi, costi, qualità. Se non lo puoi misurare, è solo un claim.
- Trasparenza: dove interviene l’AI, dove l’umano, con quali responsabilità.
- Formazione: prompt, versioning, sicurezza. Senza skill, l’AI amplifica solo gli errori.
Checklist pratica per iniziare in azienda
- Scegli un caso d’uso a basso rischio: landing per un test di mercato, script di data cleaning, mock di dashboard.
- Definisci metriche: tempo di consegna, tasso di errore, costo per iterazione, NPS dei tester.
- Prepara i dati: esempi, requisiti, criteri di accettazione. Prompt chiari battono prompt lunghi.
- Metti in piedi la pipeline: repository, revisioni, test automatici, logging e monitoraggio.
- Governance: policy su dati, IP, modelli consentiti, controllo delle dipendenze.
- Itera breve: cicli di 48–72 ore con demo interne e checklist di qualità.
- Retrospective: cosa ha funzionato, cosa no, cosa standardizzare nel prossimo sprint.
Fonti e contesto
La scelta di “vibe coding” come parola dell’anno è stata riportata da The Guardian, che cita il lavoro del Collins Dictionary sul loro corpus linguistico. La tendenza si inserisce in un 2025 che ha normalizzato l’AI nel mainstream e apre a un 2026 orientato agli agenti e ai workflow assistiti.
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